Venezuela: analisi e scenari di crisi

Il 30 aprile 2019 Juan Guaidó, leader dell’opposizione autoproclamatosi presidente ad interim del Venezuela, ha diffuso un video in cui ha chiesto l’appoggio della popolazione e dell’Esercito per spodestare il regime del leader socialista Nicolas Maduro.

Guaidó, circondato da almeno 100 soldati a lui fedeli, è apparso al fianco di Leopoldo López, figura apicale dell’opposizione che poco prima era stato liberato dagli arresti domiciliari proprio dai soldati schieratisi con il leader dell’opposizione venezuelana. Successivamente, Guaidò e Lopez, insieme al gruppo di soldati, si sono diretti verso la base aerea “La Carlota” di Caracas, nelle cui vicinanze si sono radunati i loro sostenitori. La reazione delle forze di sicurezza fedeli a Maduro ha provocato decine di feriti. La situazione non è comunque degenerata in disordini e scontri generalizzati.

Guaidó è poi riapparso il 1° maggio in una manifestazione a Caracas, durante la quale ha reiterato l’appello al popolo e ai militari di unirsi alla sua causa, mentre López nel frattempo ha trovato rifugio nell’ambasciata di Spagna nella capitale venezuelana. Nella stessa giornata, sempre a Caracas, si è svolta una manifestazione convocata da Maduro, il quale ha affermato che il tentativo di golpe di Guaidó era fallito.

La vicenda ha provocato uno scontro tra Stati Uniti e Russia, che sostengono rispettivamente Guaidó e Maduro. Alle parole del segretario di stato americano Mike Pompeo, il quale ha chiesto una transizione democratica che sfoci in libere elezioni e altresì affermato che Maduro era pronto a fuggire a Cuba, hanno fatto seguito quelle del ministro degli esteri russo Sergey Lavrov, il quale ha ammonito Washington a non immischiarsi negli affari interni del Venezuela, pena gravi conseguenze.

Intanto, proteste di media intensità sono continuate in tutto il paese, provocando 96 feriti e 4 morti, di cui 2 nello stato di Aragua.

QUADRO GENERALE

Il Venezuela è al centro di una grave crisi politica sociale ed economica di lungo corso, accentuatasi ulteriormente a partire dal 23 gennaio 2019, quando il leader dell’opposizione Juan Guaidó si è autoproclamato presidente ad interim del paese durante una manifestazione organizzata contro il presidente e leader socialista Nicolas Maduro (nel giorno che ricorda la fine nel 1958 della dittatura), in carica dal 2013 come successore di Hugo Chavez, fautore delle rivoluzione bolivariana, caratterizzata da un modello economico di stampo socialista e dall’avversione nei confronti degli Stati Uniti. Fino a qualche tempo prima sconosciuto ai più, Guaidó è salito alle luci della ribalta a partire dal 5 gennaio 2019, quando è stato nominato presidente dell’Assemblea Nazionale, l’organo legislativo democraticamente eletto in mano all’opposizione ed esautorato da Maduro nel 2017 attraverso la creazione di una Assemblea Costituente illegittima che ha avocato a sé il potere di legiferare.

Guaidó ha giustificato la sua autoproclamazione rifacendosi a tre articoli della costituzione venezuelana, ed in particolare all’articolo 233, il quale recita che se alla fine del termine presidenziale non vi è nessun successore legittimamente eletto i poteri vengono devoluti all’Assemblea Nazionale fino a quando non sono indette nuove elezioni libere e democratiche. Secondo l’opposizione, il mandato presidenziale di Maduro è terminato per scadenza naturale il 10 gennaio 2019, poiché la vittoria del leader socialista alle ultime elezioni presidenziali del 20 maggio 2018 è da considerarsi invalida in quanto affetta da gravi irregolarità e da frodi elettorali. Guaidó è stato riconosciuto come presidente legittimo del Venezuela da più di cinquanta stati, tra cui la maggior parte delle democrazie europee e latinoamericane e gli Stati Uniti, con cui il leader socialista ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche.

Juan Guaidó in una manifestazione a Caracas. Fonte: Fernando Llano/AP

Dal canto suo, Maduro ha ricevuto l’appoggio di un numero inferiore di paesi, tra cui tuttavia potenze del calibro di Cina e Russia, la cui volontà di sostenere il leader socialista ha trovato una ulteriore conferma nel marzo del 2019, quando due aerei militari russi con a bordo un centinaio di militari e funzionari diplomatici sono arrivati all’aeroporto Maiquetia di Caracas in ottemperanza degli accordi militari in vigore tra i due paesi. La Russia, inoltre, finora ha fornito a Caracas armi pesanti e sistemi missilistici e antiaerei, inclusi intercettori a lungo raggio S-300VM (Antey-2500), intercettori a corto raggio, missili contraerei BuK-M2 e S-125 Pechora-2M, ma anche missili Smerch a lungo raggio e lanciarazzi da spalla Igla-S, in grado di difendere efficacemente il paese in caso di attacco da parte di forze militari guidate dagli Stati Uniti. Oltre a motivazioni ideologiche e geopolitiche, l’interesse di Russia e Cina per il Venezuela deriva dal fatto che entrambi i paesi mirano a salvaguardare gli investimenti effettuati negli ultimi anni nella nazione latinoamericana, in particolare nei settori minerario e petrolifero (a dicembre 2018, per esempio, Mosca e Caracas hanno sottoscritto una serie di accordi in tali settori per un valore complessivo superiore ai sei miliardi di dollari).

Conscio dell’appoggio dell’Assemblea Costituente e della Corte Suprema, organo posto a vertici del potere giudiziario che negli ultimi anni è stato vittima di una azione di assoggettamento da parte dell’esecutivo, e di non poter utilizzare la mano pesante contro Guaidó, pena una pericolosa escalation della crisi, nel periodo precedente l’evento del 30 aprile Maduro ha perlopiù optato per una strategia volta a indebolire la posizione giuridica del giovane leader dell’opposizione attraverso l’emanazione di provvedimenti che hanno sancito la revoca della presidenza del parlamento e dell’immunità parlamentare a Guaidó, anche in vista di un suo possibile arresto.

Guaidó, invece, nonostante il sostegno internazionale, nei mesi successivi alla autoproclamazione non è riuscito, soprattutto per cause ad esso esterne, nel suo intento di catalizzare su di sé l’appoggio della popolazione povera e segnatamente delle Forze Armate, motivo questo che spiega l’azione eclatante del 30 aprile a fianco di soldati disertori.

ASSESSMENT

Il ruolo delle Forze Armate

La possibilità che l’Esercito abbandoni Maduro per schierarsi con il leader dell’opposizione è al momento bassa. Le figure apicali delle Forze Armate, infatti, difficilmente accetterebbero di perdere il potere acquisito negli ultimi anni all’interno degli apparati economici del paese, ed in particolare all’interno della compagnia petrolifera statale e delle altre industrie strategiche nazionali, nonché nella rete di distribuzione del cibo. Inoltre, nonostante l’apertura di Guaidó sull’amnistia nei confronti degli esponenti dell’Esercito che collaboreranno nella destituzione del leader socialista, i militari, ed in modo particolare i vertici, sono sempre più consci del rischio che nei loro confronti possano aprirsi dei processi per violazione dei diritti umani o altri crimini, così come accaduto in molti altri paesi dell’America Latina in passato.

Nemmeno sembra probabile che l’episodio del 30 aprile possa provocare nel breve periodo una “deflagrazione” all’interno dei bassi o medi ranghi delle forze di sicurezza, la cui fedeltà a Maduro, o per meglio dire al carismatico Ministro della Difesa Vladimir Padrino López, è ancora preponderante. Non va tuttavia tralasciato il fatto che oltre a ragioni fideistiche, l’appoggio dei bassi e medi ranghi al regime socialista è dettato dalla paura di ritorsioni anche nei confronti dei loro familiari.

Benché l’entourage socialista sia ben consapevole della forte presa che esercita nei confronti della maggior parte dei membri delle forze di sicurezza, al fine di evitare il ripetersi di episodi di insubordinazione come quelli del 30 aprile o di inizio gennaio 2019 – quando in una caserma a nord di Caracas 27 appartenenti ai bassi ranghi dell’Esercito avevano postato sul web un video per esprimere il loro dissenso verso il regime socialista e invitare la popolazione a ribellarsi – è altamente probabile che nelle prossime settimane vengano rafforzate le già pervasive e capillari forme di controllo sui membri dell’Esercito, anche grazie al potenziamento dell’apparato di intelligence, supportato in modo determinante da funzionari cubani, il cui numero potrebbe addirittura aumentare.

Un possibile scollamento tra Esercito e regime socialista potrebbe comunque concretizzarsi nel caso in cui il governo dovesse procedere, soprattutto per mezzo delle milizie filo-governative (i “colectivos”), alla repressione violenta di eventuali proteste da parte degli abitanti dei quartieri poveri del settore occidentale di Caracas, tradizionalmente fedeli alla figura di Chavez, dove stanno iniziando ad emergere i primi segni di malcontento. Soprattutto i membri dei bassi ranghi delle Forze Armate, infatti, mal tollererebbero la repressione di persone appartenenti alle classi sociali più svantaggiate e, pertanto, potrebbero abbandonare in massa e definitivamente il loro ruolo a difesa del regime socialista. Proteste diffuse delle classi subalterne tradizionalmente fedeli al regime potrebbero verificarsi nel caso di un aggravamento della già grave condizione economiche o attraverso la sollecitazione dello stesso Guaidó, che al momento, tuttavia, non appare in grado di fomentare in modo massiccio tali classi. Un banco di prova sarà rappresentato dalla mobilitazione permanente chiamata dal giovane ingegnere per le prossime settimane.

Il ruolo degli Stati Uniti

Un ruolo di prim’ordine all’interno della vicenda venezuelana è svolto dagli Stati Uniti. Nonostante i proclami e le affermazioni di importanti esponenti del governo statunitense circa la possibilità di un intervento militare in Venezuela, la probabilità che ciò avvenga è bassa. Oltre a stridere con la politica isolazionista propugnata di recente dall’amministrazione Trump, la quale ha deciso il ritiro delle truppe dal fronte mediorientale, vi sarebbero impedimenti legati agli alti costi di una eventuale spedizione militare, al rischio di un flusso continuo di rifugiati dal Venezuela verso il paese a stelle e strisce (che non sarebbe ben visto dall’elettorato conservatore che appoggia il presidente) e al rafforzamento del mai sopito sentimento antimperialista presente in molte nazioni latinoamericane, la cui origine va fatta risalire al XIX secolo, quando con l’affermarsi della “Dottrina Monroe” gli Stati Uniti definirono l’America Latina il proprio “cortile di casa”.

A stemperare le velleità belliche degli Stati Uniti potrebbe contribuire in modo determinante la contrarietà manifestata dalla Colombia e dal Brasile (stati posti al confine con il Venezuela e perciò strategici) rispetto ad un eventuale intervento militare in Venezuela. Sebbene ambedue gli stati siano in prima linea contro il governo socialista di Maduro, il quale è stato definito dai presidenti delle due nazioni un leader illegittimo, i rischi di un raffreddamento delle relazioni con la Cina (alleata e sostenitrice di Maduro), che risulta fondamentale per le sorti economiche di Colombia e Brasile, il timore di un flusso incontrollabile di rifugiati dal Venezuela (nel recente passato, per esempio, scontri tra  rifugiati venezuelani e popolazione locale si  sono verificati nello stato settentrionale brasiliano di Roraima, provocando la chiusura della frontiera tra i due paesi) e, nel caso della sola Colombia, il rischio che si verifichi una escalation degli attacchi all’interno del paese da parte dell’Esercito di Liberazione Nazionale, ELN, gruppo terroristico colombiano di stampo marxista legato a doppio filo al regime del presidente Maduro, rendono improbabile un mutamento in senso contrario della loro posizione. Non va infine dimenticato che il Brasile è custode geloso dell’Amazzonia e, nonostante le esercitazioni militari congiunte tra Esercito statunitense e brasiliano avviate nel 2017 sotto la presidenza di Michel Temer proprio all’interno dell’Amazzonia e la generale convergenza di vedute tra il presidente statunitense Donald Trump e il neoeletto presidente brasiliano Jair Bolsonaro, difficilmente permetterebbe a Washington di utilizzarla come base per le operazioni militari contro il Venezuela.

Presenza ELN in Venezuela. Fonte: Insight Crime

Un ulteriore freno ad una possibile azione militare statunitense è rappresentato dalla presenza di Cina e Russia all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove ambedue i paesi hanno già manifestato la loro opposizione ad una risoluzione presentata da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia per procedere a libere elezioni nel paese latinoamericano. Per tale ragione, la possibilità che si dia luogo ad un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite, per il quale è necessaria l’unanimità all’interno del Consiglio di sicurezza, è praticamente nulla. Non si dimentichi, tuttavia, che in passato gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente in molti paesi anche senza l’avallo delle Nazioni Unite.

OUTLOOK

Nel breve periodo, la probabilità che si assista ad un intervento militare straniero che provochi un cambio di regime o sfoci in uno scontro tra le fazioni militari che appoggiano i due opposti schieramenti politici è rispettivamente molto bassa e medio-bassa. Appare, al contrario, elevata la probabilità che il regime socialista rimanga saldo al potere, anche se non è esclusa un’uscita di scena di Nicolas Maduro.

Nel medio periodo, il mantenimento del potere da parte del regime socialista sarà legato in modo indissolubile al supporto delle Forze Armate e della Russia. L’appoggio dell’Esercito potrebbe comunque venire meno nel caso di una significativa intensificazione delle sollevazioni popolari, tale da comportare un forte aumento del rischio di violenze. Un simile sviluppo potrebbe favorire un accordo tra Russia e Stati Uniti che porti a una transizione pacifica ai vertici del paese, tutelando, al tempo stesso, gli interessi economici e geopolitici di Mosca.